Pubblichiamo volentieri una sentenza del T.A.R. Puglia-Lecce che interviene su questione diventata “spinosa” negli ultimi anni, probabilmente ben più di quanto meritasse, se solo si facesse applicazione dei principi generali del diritto e della dovuta dose di buon senso.
La questione è quella della “possibilità”, se non addirittura “doverosità”, da parte della Pubblica Amministrazione di “disapplicare” volontariamente norme di legge che siano ritenute, dal singolo funzionario o dal politico di turno, o da una “vox populi” corrente, contrarie a qualche normativa superiore o a sentenze pubblicate, negando così l’applicazione di legge richiesta da un soggetto che ne abbia titolo. La materia è quella, tormentata, delle concessioni demaniali marittime, cui da tempo sono equiparate, ai fini concessori, le concessioni demaniali lacuali.E la normativa “disapplicabile” è quella, notoria, della Legge n° 145/2018 che prevede la posticipazione della durata delle concessioni demaniali di quindici anni.
Il fatto regolato dal Giudice è presto detto: un Comune pugliese, su richiesta, aveva applicata la norma della Legge n° 145/2018 posticipando la scadenza della concessione al 31 dicembre 2033, e ciò faceva con atto del 2 aprile 2019. Successivamente lo stesso Comune, con nota del 13 gennaio 2020, comunicava alla Società che aveva ricevuta la posticipazione di durata l’avvio del procedimento per l’annullamento d’ufficio di tale posticipazione, annullamento poi disposto con atto 5 maggio 2020, dopo le controdeduzioni (evidentemente contrarie) della Ditta concessionaria.L’annullamento d’ufficio è stato disposto invocando la norma dell’art. 21 nonies della Legge n° 241/1990.
Il T.A.R. Puglia-Lecce ha annullato il provvedimento ritenendo fondato il ricorso della Ditta nel punto in cui deduceva come illegittima la disapplicazione da parte dell’Autorità amministrativa della norma di cui ai commi 682 e 683, in relazione ai precedenti commi dal 675 al 677, della Legge n° 145/2020, tenendo conto anche dell’art. 182 D.L. n° 34/2020.
In sostanza, afferma il T.A.R., non spetta all’Autorità amministrativa disapplicare la norma nazionale “ritenendosi viceversa tale attività riservata solo ed esclusivamente al giudice”, in quanto la disapplicazione “costituisce null’altro che il risultato del previo esercizio della funzione interpretativa” che la legge riserva al Giudice e non può, invece, trovare collocazione nell’attività di amministrazione attiva, ove la P.A. deve seguire la legge vigente e non porvisi in volontaria inosservanza.
Questa conclusione del Giudice pugliese muove dal presupposto secondo cui il provvedimento amministrativo adottato in conformità alla legge nazionale ma in (eventuale) violazione di una direttiva autoesecutiva o di un regolamento comunitario, secondo l’orientamento giurisprudenziale largamente prevalente, costituisce atto illegittimo e non già atto nullo, con la conseguente sua annullabilità da parte del Giudice su eventuale ricorso di un soggetto che abbia titolo per proporlo, ricorso da notificarsi entro il termine decadenziale previsto dalla legge, in assenza del quale l’atto, ancorchè annullabile, si consolida, dev’essere osservato e produce i suoi effetti.
Dunque, l’Autorità amministrativa non può ergersi a Giudice della legge nazionale e non applicarla perchè ritiene che essa sia in contrasto con qualche altra norma sovraordinata o con gli orientamenti della Giurisprudenza Amministrativa o delle Corti. L’Autorità deve applicare la norma vigente e pertinente al caso specifico e perciò rendere il provvedimento chiesto. Se poi vi sarà chi quel provvedimento ritiene illegittimo, e sempre che vi riscontri danno individuale, verrà notificato ricorso T.A.R. ed il Giudice deciderà, eventualmente annullando il singolo atto illegittimo assunto in applicazione di una legge vigente, sempre che il Giudice del caso concreto l’abbia ritenuta contraria alle norme costituzionali o comunitarie.
La pronuncia in esame, come s’è detto in apertura, è ampiamente condivisibile e riporta nei suoi giusti binari e confini l’attività amministrativa quotidiana.
E’ noto che avverso le norme della Legge n° 145/2018 vi sono state molte lamentele perchè s’è detto che riproponeva le “proroghe” delle concessioni demaniali già dichiarate contrarie alla disciplina comunitaria dalla Corte di Giustizia UE nel 2016. E su questo si è sviluppato un certo filone interpretativo anche in Giurisprudenza e s’è generato un “timore applicativo” presso le Amministrazioni, o presso taluni Amministratori. Ma ciò non costituisce ragione sufficiente per non applicare la legge che è in vigore. Sopratutto a fronte della conclamata circostanza che le norme della Legge n° 145/2018 -alle quali era stata attribuita una certa “genitorialità politica”- risultano apertamente ribadite con due interventi normativi espliciti nell’anno 2020. L’uno è quello di cui all’art. 182 comma 2 della Legge 17 luglio 2020 n° 77, di conversione dell’anteriore Decreto Legge, che recita “fermo restando quanto disposto nei riguardi dei concessionari dall’articolo 1, commi 682 e seguenti della legge 30 dicembre 2018 n. 145” e, l’altro, è costituito dall’art. 100 della Legge 13 ottobre 2020 n° 126, di conversione del Decreto Legge 14 agosto 2020 n° 104, che non solo ha richiamate tali disposizioni della Legge n° 145/2018, ma le ha anche estese “alle concessioni lacuali e fluviali”. E si tratta di norme emanate sotto una “genitorialità politica” che, pare almeno, dovrebbe essere diversa.
Dunque, in definitiva, l’Autorità amministrativa deve applicare la legge senza farsi condizionare da “orientamenti” più o meno diffusi, da stati d’animo o da opportunità. Una volta assunto il provvedimento amministrativo, se questo viene ritenuto illegittimo, sarà chi ne ha titolo e ne riceve danno ad impugnare al Giudice Amministrativo, e poi se ne vedrà l’esito.